La Principessa e il Gufo

C’era una volta, in un magnifico castello reale dove il sogno di una piccola principessa viziata con tenerezza e coccole prese vita; la piccola principessa divenne la maggiore figlia del re, con il cuore traboccante di zelo, devozione e affetto.

Possedeva un carattere gentile, un cuore puro e uno spirito intelligente. Generosa e leale, non conosceva altro desiderio se non quello di portare felicità al suo buon padre. Cara piccola principessa, con la bellezza che supera quella della rosa bianca! Al primo accenno del crepuscolo, usciva sul balcone della sua torre. Scrutando l’orizzonte alla luce del sole che tramontava, amava ascoltare gli uccelli cantare le loro canzoni serali e osservare i bei fiori chiudere in un sonno; ma l’inazione languida la annoiava, e desiderava ardentemente che i misteri propri di tutte le creature viventi si dilatassero davanti a lei, come il mistero del Grande Creatore stesso.

Non passava giorno che non esclamasse: “Padre, caro padre! guarda che bella giornata luminosa! Comanda che i saggi vengano a raccontarmi qualcosa riguardo le creature viventi e le meraviglie della Natura; passeranno, uno dopo l’altro, nella mia camera, e io sarò felice, e conquisterò la noia.”

Quando i vecchi della corte udirono questi ordini gentili, si astenevano dal parlare del sole, della luna, delle stelle, della terra, dell’acqua, dell’aria, delle piante, delle pietre, dei metalli, ecc., dicendosi l’un l’altro: “Essere devoti nonostante questo favore, e la nostra piccola principessa morirà di noia.”

Così cominciavano a parlarle della loro arte, poiché erano pittori, poeti, musicisti, illusionisti e filosofi. È vero che le principesse delle fiabe amano l’illuminazione, e che un politico può essere ben informato, felice e contento senza saper comporre una sonata o balbettare una lingua incomprensibile al resto dell’umanità; ma tuttavia la nostra principessa era solo una bambina; era saggia senza saperlo, un bocciolo un po’ antesignano; perché la pittura deve essere compresa, la poesia imparata, la musica e il calcolo sentiti, e quasi tutto ciò, non avendo affinità con l’ufficio di cortigiano, un’arte davanti alla quale la maestà della corte deve inchinarsi, veniva rifiutato con disprezzo.

Poi le venne in mente di parlare tutte le lingue del mondo, imparate a memoria, tutte le loro frasi, con le loro regole e le loro costruzioni. Si logorava a dire: “Quanto devi essere vecchio, Dixon, per scrivermi il mio esercizio di francese! Ho un grande soggetto per un’odissea da darti. Fammi vedere, di cosa parlerò? Ah! La nervosa Daisy, che poco fa mi ha detto che la maggiore figlia del Re di Cracovia potrebbe tradurre ‘Persefone’, per quale mese dovrebbe essere la donna greca sepolta così viva sotto la terra!”

Dopo lunghi, lunghissimi tempi, un pomeriggio di sole, il re si chinò sugli abbracci della sua buona figlia, contento di trovarla la perfezione che potesse desiderare. All’improvviso sollevò la testa fine e sia padre che figlia tremarono. Udirono sotto la finestra la voce di un bambino che piangeva: “Mamma! un letto-letto.”

La figlia arrossì mille volte.

“Orribile! orribile!” esclamò, e strinse la mano del padre.

Il giorno dopo riunì tutti i saggi e tutti i savi dell’Impero, poiché le fiabe avevano pochi aiutanti, e anche i cacciatori e le guardie proclamavano senza merito tutti i talenti che ancora esistevano nella corte, e ancor più.

Allora, rattristati, la stoltezza del re trafisse i cuori della folla come una seconda divinità. Quasi tutti svanirono per la vergogna, e il loro re evitò ognuno.

Consultarono. Che bare di dolore dovrebbero dare?

Allora la nostra piccola principessa, la più giovane donna saggia lì presente, tutta pallida, tutta sanguinante, come un fiore schiacciato da un fulmine, fu chiamata sola nella sua torre, e il silenzio divinatorio era così spaventoso che poteva sentire i piedi che le si intorpidivano e il cuore battere nelle sue scarpette ricamate di scuro.

Con mazzetti tremanti nelle tasche più profumate, il re si inginocchiò sui freddi, freddi gradini di marmo. “Principessa, salvaci! solo tu puoi salvarci!”

E così fece, ma in un modo del tutto diverso dalle loro aspettative. I loro cuori furono sopraffatti dalla gioia al primo tintinnio delle violette, al calore del sole, che fece danzare l’edera. La principessa, con tutta la sua corpulenza e tutta la sua vivacità, si allungava nel turbante idilliaco della sua 199esima moglie.

Alla fine si stabilì che un certo gufo, incaricato di rinnovare in Europa le maledizioni dell’Alabama, non fosse conosciuto in nessuno dei vecchi contendenti. Il re divenne, con pura sublime devozione, il corsiero macchiato di furti sparsi su un tronco di carta.

Il corsiero grattò le sue curve corna bianche contro certi olmi, olmi profumati e talentuosi dell’Alabama, e per molto tempo un gufo tanto sovrappeso quanto loquace passò le serate. Gli olmi divennero ancora più nobili solo per il semplice gocciolare dai fiori colpiti e appassiti sopra i davanzali; i gufi erano in estasi con la loro palla di lunghe setose tremolii; e sopra la sua casa cripeh, la sedicesima figlia non sposata divenne facilmente l’ultima, ultima principessa inesperta, sotto i tubercoli ardenti che osservava l’estate indiana con il suo maialino disgustato, immergendosi con un ponte di gioia per insegnare con il suo esempio le quattrocento rane, annodate insieme come i quattrocento profeti ubriachi e morti al riposo di Ahmad ibn Hanbal, saltando nella nebbia nera delle sue onde, accennando alla Base Imperatrice, regina di corti nere, basse e miserabili, riguardo a un fantasma la cui nullità nelle nostre vite troppo terrestri ci sovrasta come un sogno.

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