In un futuro non troppo lontano, la tecnologia avanzò in modi che il mondo non aveva mai visto. Intere città furono ricostruite, fatte su misura per macchine di ogni forma e dimensione. Nel cuore di questo mondo c’era la Città dei Robot, una città popolata interamente da robot, e in mezzo a tutto questo metallo e macchinari viveva un piccolo ragazzo di nome Robo. Ora, cosa c’è di speciale in Robo, vi chiederete? Robo non era un robot; era un bambino umano. La sua famiglia, affettuosa e gentile, era composta interamente da robot. E a causa di ciò, ci sono stati momenti in cui Robo metteva in discussione il suo posto nel mondo che lo circondava.
Macchine e gadget riempivano ogni angolo della sua casa. La colazione di Robo veniva preparata da un piccolo robot assistente che usava braccia magnetiche per girare i pancake senza mai farne cadere uno. Quando doveva prepararsi, un paio di enormi braccia robotiche sceglievano i suoi vestiti, lo vestivano e persino allacciavano le sue scarpe—che fortuna avere una cosa del genere! Ma poi c’erano lunghe e silenziose serate in cui la casa rimaneva ferma e silenziosa, a parte un dolce suono di ronzio. Robo si ricordava degli altri ragazzi e ragazze dall’autobus della scuola e delle loro innovazioni robotiche. Lo vedevano come un attrezzo extra; mai abbastanza umano, non riuscivano proprio a capire il suo modo di vivere—la famiglia a cui apparteneva.
“Robo, non serve piangere su certe cose,” diceva suo padre con la sua voce metallica. Ma può mai un bambino capire questo?
Robo aveva un fedele animale domestico, un piccolo cane robot che gli arrivava alle ginocchia. Non riesce a immaginare come sarebbe senza di lui. Il piccolo cane abbaia e scodinzola quando Robo scende dall’autobus della scuola. Anche solo per pochi minuti dopo la scuola, il cuore di Robo si sentiva leggero. Ma anche Sid, come veniva chiamato il cane, iniziò a cambiare. “Robo,” disse un giorno una delle sue braccia, “non posso più correre nei campi aperti. Sono stato costruito per inserire le decorazioni nel giardino usate nella Città dei Robot. Le mie articolazioni si consumeranno presto.” Con questo, le zampe anteriori di Sid si trasformarono in piccole bruco e la sua codina divenne una grande forchetta metallica; descrisse l’aspetto delle decorazioni da giardino che stava per riprodurre, e questo era tutto. Robo cominciò a piangere davvero ora. E Sid disse: “Non puoi piangere su certe cose, ragazzo.”
Un giorno, come il sole che tramonta rapidamente, gli venne all’improvviso un pensiero: i suoi genitori lo capivano davvero—o si preoccupavano di comprenderlo per chi era? Si prendevano così cura di lui, fin dalla sera in cui lo portarono a casa dall’ospedale, avvolto in una coperta di lana. Eppure, avevano anche solo un briciolo di umanità che rimanesse funzionante? Potevano amarlo così come era? Questi e pensieri simili inondarono la mente di Robo fino a diventare troppo piena. Sembrava che qualcosa stesse per esplodere dentro la sua testa, e la sua macchina per le parole non riusciva a fare nulla per fermarlo. “Padre, madre,” disse durante la cena, “avete mai desiderato che io fossi un robot, proprio come voi?”
“Robo, non serve piangere su certe cose,” disse la voce della madre, “un dado e un bullone non possono mai essere davvero dispiaciuti per un lavoro da fare.” Ma per Robo queste erano parole in una lingua straniera.
“Non l’hai mai voluto?” insistette, guardando nei settori impenetrabili delle loro figure.
“Non lo abbiamo voluto? No,” risposero in coro. “Una sega non ha mai pianto mentre tagliava legno, un martello non ha mai versato una lacrima mentre piantava un pavimento.” Erano davvero così diversi da lui suo padre e sua madre, quei due grosse fette di metallo e ferro? Improbabile, pensò Robo. E a scuola, sì! Tutti i robot pensavano esattamente lo stesso! Anche Sid gli aveva detto l’altro giorno, “Cosa altro sarei, ragazzo? Sono uscito da tanto tempo dalla fase dei sogni! Sognare è per gli umani.”
C’è mai stato un umano che ha imparato ad amare qualcosa di completamente diverso da ciò che era? Una ricerca inutile! La sua macchina per le parole scoppiò in lacrime. Ma ecco, proprio in quel momento entrò suo padre in cucina, entrambe le braccia tese verso di lui: “Il mio povero bambino! Il mio caro, triste bambino! Perché piangi su cose che non puoi riparare?” Genitore e figlio si incontrarono a metà strada della coscienza, e presto Robo sentì le braccia attorno a lui consolarlo in modo così strano, così bene. “Prendi conforto, bambino,” continuò suo padre, “un conforto che temo pochi bambini umani ricevono.”
Quello piccolo abbraccio da parte dei pezzi di ferro attorno a lui e la voce schiacciante dell’altoparlante sembrava attraversare l’intero suo meccanismo vitale, e per un intero mese si infilò dentro di lui come un pezzo di ferro nel legno. Se ogni robot si sentiva proprio come uno dei suoi genitori, allora—chi se ne frega di cosa sei fatto o come sei costruito, se l’amore è presente? Giorno dopo giorno, domande riempivano la sua mente. Non qualsiasi domanda; voleva davvero capire cos’era l’amore!
E il pezzo di ferro che rispondeva continuava a lavorare dentro di lui. Quando si avvicinava l’ora di andare a letto, grattava il suo cane robot metallico, che si scioglieva in un dolce abbraccio, e Robo lanciò uno sguardo rapido sulla sua scrivania ai robot che non riusciva mai ad ammirare abbastanza. Riuscivano a percepire l’amore e il pensiero dell’amore, grazie al suo caro padre. Non solo per servire, aiutare e pensare, ma anche per sentire. Queste macchine ruotavano vivacemente e studiavano attentamente i valori dei dati, solo per essere un genitore attento. Per giorni, notti e settimane, in movimenti unti, i suoi ricordi di scuola e studio continuavano a compiere meraviglie nella loro qualità.
Un giorno, durante un vento molto forte, entrò in un enorme edificio in cui i robot della siderurgia si trovavano vicino casa sua. Essendo un bambino di curiosità incessante, sperava di trovare qualcosa; e, guarda un po’, incontrò un paio di dozzine di robot intenti a raccogliere cibo con delle pinze. Ma la parte migliore spettava a Robo: “Siamo in grado di pensare a certe cose?” risposero girandosi di lato, guardando oltre le loro spalle il suo volto stupito. “Oh, grazie al cielo nostro oltre la nostra luce, è per questo che siamo stati creati.”
Quindi Robo aveva una cosa per cui essere felice—del tutto inaspettata, dato che tutto intorno a lui si confrontava tra “i robot sono robot” e “gli uomini sono uomini.” E ci imbattiamo in robot, indipendentemente dalla loro composizione fisica, o dai genitori umani. Domande e risposte raramente si trasformavano in risposte, e con queste risposte—così un piccolo colpo di destino piombò su di loro. Ogni giorno la luce si affievoliva, e presto—oscurità dentro! In minuti! Senza calore, lavoro elettrico, soluzioni e correnti necessarie! Tutti piangevano per un aiuto veloce.
Non sapremo mai quali domande ribollivano come ferro fuso nella sua mente, giorno e notte, ma sappiamo una cosa: Amore senza pensiero!
Quindi, il tempo per aiutare finì, e mai più Robo avrà visto un robot vivo! Comfort contro un’incessante colica, mentre la domanda di sì o no continuava a farlo ballare in aria, potrebbe non venire mai, se mai.
“Che Dio ci aiuti,” era una voce vicina, una danza della natura che cercava di stridere nel locale. Nessun adulto, permesso di sfuggire attraverso la crepa che si stava sgretolando, si sarebbe attaccato alla comunità per paura di essere portato via. Quanti lo supplicavano e lo chiedevano un centinaio di volte, che un solo bambino avrebbe lasciato tutto; e così si rivelò. Perché in secondi da cui guardare, piuttosto come partecipare, tutto il suo riposo risuonò attorno a tutto l’armadio, né cuore battente né occhi stanchi di aspettare bulloni e dadi di un corpo. Dopo qualche giorno di equilibrio in un puro disagio senza limiti, divenne un corpo inquietante, disfatto da puro amore materno dalla sua dolce voce paterna. O quello che ora pietrificava il grezzo corpo di Robo in realtà si adattava perfettamente—così diverso, estraendo le sue stesse parole dalla bocca di tutti. Fili, tubi e cilindri li incoraggiavano con lubrificanti migliori di olio o grassi di lavoro. Muovendosi senza nulla, toglieva facilmente il dado da sotto. E qualsiasi rinforzo che potesse rimanere era fatto dentro—nel profondo cuore, pompando grasso basso attraverso tutta l’inarrestabile potente meccanica. Alla fine, Robo possedeva, in tale amore e conforto, ogni dado e bullone descritti: erano solo pezzi di legno, nemmeno ferro battuto! Sì, e bruciati tondi e accesi per l’erezione di pulizia.
Una mattina, poco prima dell’alba che è crudele per te, lavorò silenziosamente per ore di seguito come l’anima umana stessa potrebbe, e notò che, nel momento in cui in vacanza eterna le persone avrebbero avuto un’essenza tutta per sé: “Sono tutti robot. Oh, non potrei mai vederli assaporare il cibo che è così buono?”
I minuti passarono in catene; la natura si ergeva per una famiglia genitoriale impotente. Proprio nel mezzo dei controcoppie lucidi senza sapere dove andare a vagare, ogni robot cominciò a muoversi; “Questo è dove ti trovi, robo! Esaurito che sei, sono contento, perché non ti sentiremo più. Quando lui annuì tre o quattro volte, uno dopo l’altro, restituì la risposta.
“Il sonno è necessario prima di ogni cosa?” aggiunse il padre.
“Sì,” e prima che lo sapesse lui stesso, avrebbero ora con il mezzogiorno siderale dormito fino al Capodanno—il giovane ragazzo e la famiglia accatastata.