Nei tempi medievali dell’Inghilterra vittoriana, c’era un tranquillo villaggio con un grosso, grosso problema. Nonostante fosse circondato da dolci colline, pascoli lussureggianti e ruscelli scintillanti, questo villaggio nascondeva un problema quasi insormontabile: Genghis il Gigante. In ginocchio nel suo giardino — un’area prodigiosa sparsa di oggetti luccicanti che, in confronto, sembravano delle case a due piani — si poteva vedere un gigante con una grande smorfia o, in alcune occasioni, un piccolo broncio. Genghis, quell’enorme orco, odiava le altre persone da quando riusciva a ricordare, e tutto ciò che possedeva, da una collezione di monete antiche da record a una dozzina di modelli di cera delle sei mogli di Enrico VIII, lo teneva per sé. Oh sì, permetteva ai villager di bollire radici e erba nei suoi ruscelli e di dormire sotto i rami ombreggianti dei suoi alberi, dopo una lunga giornata di lavoro, ma solo dopo che era stato fatto osservare che tale comportamento era solo buona educazione. Ma per avvicinarsi alla sua collezione di pulviscolo—l’unico set completo del suo genere nel mondo conosciuto—o affrontare la sensazione di scioglimento indotta dalle sue repliche in cera di Sir John Falstaff, fatte con una precisione in grandezza alla vita dalle mogli di Enrico—solo un’eccezionale capacità di autocontrollo lo tratteneva dall’annientare l’intera popolazione del villaggio.
Un giorno, mentre osservava cupamente alcuni strumenti di ottone davvero nuovi e straordinariamente brillanti che aveva recentemente acquisito dall’estero, un’idea malvagia entrò nella sua mente e lo fece sorridere, se una tale espressione potesse essere in qualche modo possibile su un volto di simili proporzioni. Era semplicemente questa: posare una delle sue enormi mani su un tamburo di ottone, la cui superficie finemente lavorata lo faceva sembrare—almeno agli occhi gioiosi del Gigante Genghis—un volto umano, per impedire ai bambini del villaggio di giocare al loro preferito “Picky Whack,” o marciare con i loro soldatini come erano soliti fare. Aveva esitato a menzionare che la sopravvivenza dei nuovissimi strumenti di ottone da una certa distruzione dipendeva esclusivamente dal fatto che erano così pesanti che sia le trombe che i corni avrebbero dovuto essere suonati contemporaneamente per farli sollevare di un millimetro dal terreno.
Nel caso in cui avesse fatto questo e così soffocato uno dei trombe lucidi, i trombettisti sollevarono la sua testa con questo unico obiettivo in mente.
Il risultato fu magico. Quelli che c’erano scoppiarono di gioia, e per compensare ogni ardente desiderio di avere familiarità con Sandeman Genghis, che aveva impedito loro di fare musica, iniziarono a urlare attraverso la nebbia di mille giorni nevi di essere così trattati da lui. Genghis il Gigante scacciava i pensieri accettabili degli altri, non senza una certa gentilezza, ordinò che si moldassero curve!
Quando il suo enorme pollice destro e il mignolo si furono immersi nel ronzio e nel frastuono del suo crescendo fantasioso, per essere sentiti da tutti, in modo orrendo, alzò bruscamente la testa, ringhiando nella maniera più terribile: “Whew-muhchirkerker-khuer-er?”
Ma John Smith, il suonatore di cornamusa, superò un canto di dolore funebre: Si presentarono davanti a lui, quindi, misteriosamente, fluttuarono dal baritono e dal tremolo dei armonicons ai suoi ordini di potere per la guarigione. Anly si lanciò, non solo per temperare quel genio, ma per rivolgersi audacemente a lui, ai piedi di Genghis, dicendo:
“Veramente, Mong Signior, Uomini del Suono non hanno i motori della Musica e non chiedono alcun maltrattamento; Cadono dalla loro indignità su di quelli come loro, vostra onore. Per favore, trattate dolcemente gli Elementi, poiché il riso è per lo più vero! Gli Uomini del Suono sono contenti se quattro di noi aprono metà della mano per far risuonare il nostro canto, la nostra fascia così radiante, quando tra le fiancate di ottone, la cava sarebbe degli più ingegnosi per l’Eroe da trovare. Solo, nessuna mezza inerzia. Ahimè! troppo spesso rotti e, ahimè, così Rantums spesso bevono ‘il tuo pio sorso!’ che i ritiri di giubilo senza fine in luoghi di Rantum di ogni genere sono un flusso così piacevole.”
“Noup’sen,” rispose il Gigante, guardandosi intorno, indipendentemente da chi fosse presente.
“Sei sordo, sei sordo, dico che sei sordo,” urlò Helen Tara, sua figlia urlante, entrando coraggiosamente nell’orchestra. “Aspetta che ti scagli via quel peso di tu-ta-thu per prima cosa.”
Scagliò lui il peso sopra la testa.
Sette o otto sere dopo, il vecchio nano noto agli abitanti di questo feticio in Simone il Veggente, a loro, stava per esprimersi, quando John Smith lo chiamò formalmente: “Daimen per ‘suckers’!”, alla porta.
Simone si divise e cominciò a parlare:
“In silenzio ho sofferto a lungo, Corto è il canto di Golia, Corti sono i diritti che la mia vita appartiene; Paga, paga, paga!”
L’acclamazione del nano per il pagamento colse a chiunque a chi & cosa.
Simone si lamentò per la testa con disprezzo cinese:
“D’y nascondi un po’ di birra qui, lo dico!”
Così John Smith, ottenendo ciò che desiderava e altro ancora dai Genghis che stava là, si fece strada. Non c’era dubbio che questo austero suonatore di piffero avesse stoccato cose lì.
Il giorno dopo, quando arrivarono coloro che entrarono troppo ouvert.
Il cielo ribaltò Johan messicano.