C’era una volta, in una soleggiata savana, una dolce e gentile giraffa di nome Gina. Per tutta la giornata, Gina amava ridere. Le sue alte e melodiose risate echeggiavano attraverso le pianure e mettevano un sorriso sul volto di tutti. Anche se gli animali potevano sentirsi tristi, Gina si avvicinava a loro con un luccichio negli occhi e presto ridere insieme.
La zebra che masticava l’erba si voltava e ridacchiava vedendo quella strana creatura dal lungo collo. L’ippopotamo che schizzava nell’acqua alzava la testa e mostrava file di denti brillanti mentre rotolava nel ridere. Ma non appena questi amici si rendevano conto di trovarsi nuovamente in solitudine, la zebra e l’ippopotamo iniziavano a ridere di nuovo, il che faceva ridere ancora di più Gina, poiché non riusciva a capire di cosa ridessero, dato che non erano affatto creature buffe.
Un giorno, una leona dal cuore gentile passò mentre Gina stava camminando su e giù, allungando il collo per vedere se riusciva a trovare qualcuno con cui condividere una buona risata, perché era troppo ansiosa di incontrare un amico.
“Ah, povera te,” disse la leona. “Non c’è da meravigliarsi se ridi da sola, dato che ti prendono in giro; vieni con me, ti mostrerò quegli animali due che non verranno mai da te mentre stai ballando con quel tuo alto e allegro passo e ridendo fino alle lacrime.”
Questo tanto spaventò Gina che disse: “Dimmi chi o cosa temono, e non riderò mai più, nemmeno se perdo tutti i miei amici.”
“Perderai molti, incluso me, signorina Risata Persa, se fai qualcosa di così sciocco,” fu la risposta. “Non sopporto nemmeno di sentire un lamento o un gemito, quindi sono qui per dirti dove potresti stare meglio, senza essere infastidita dalle tue risate e danze. Vieni con me.”
Gina la seguì lentamente, poiché amava tanto ridere per una bella storia, e la sua testolina regale si affacciava in alcune di esse per fare amicizia con gli autori.
Ma proprio quando si aspettavano un intrattenimento molto fine, l’andare su e giù di una leona e della sua famiglia e come vivevano nel modo più piacevole e nonnoioso, ogni uccellino succoso, animale. Sembrava ci fosse anche una capra e un vitellino nei loro pasti, e non c’era mangiare uno dell’altro a meno che non si mettessero a combattere nei pelame degli altri, e la carne lasciata dagli amici dopo che un leone malato era andato in rovina con tutti i loro denti e artigli selvaggi significava leoni per cena che erano stati fortunati abbastanza da avere pecore dal pelo morbido e vitellini carini e grassottelli con cui vivere.
Così, tutti si occupavano di fare del bene finché uno di loro non si dimenticava e, guardando attraverso una grata che intendevano cucire insieme con un tempo variabile da mezz’ora a un’ora e mezza di cucito, sentirono il pianto di una pecorella con le zampe in aria tra due zampe di leone, che silenziosamente le schiacciavano la voce e si sentirono all’improvviso come se partecipassero a cibi ben conditi solo da servitori, versatori, affettatori e intagliatori.
Poi, naturalmente, tutte le signore e tutti i bambini corsero per avere la loro parte, e le genti e i leoni si scontrarono con i negozi di burro, come potevano, in modo sfacciato fino a che gli scheletri lasciati fuori dalla tana per uccelli e bestie da preda non gocciolavano e rimanevano verdi alle radici fino a che il loro stesso giunto non diventava spugnoso e gli arti perpetuamente tenuti delle pecore, dei vitelli e dei capretti dai quali le ossa degli scheletri non potevano essere completamente pulite, si impoverivano di fame; ma tutti festeggiarono rosicchiando ossa senza un boccone di cibo o uno sguardo di gioia o nemmeno un urlo di avidità tra i pasti.