In primavera, tanto tempo fa, c’era una valle così pacifica e calma che si poteva quasi pensare che riposasse dal mondo frenetico e rumoroso all’esterno. Questa valle si chiamava Valle Gentile, e il nome le si addiceva così bene che nessuno aveva mai cercato di cambiarlo.
Non aveva mai conosciuto una battaglia; anche i venti sembravano sempre portare messaggi dolci e gentili da una cima all’altra. Lunghe colline basse si estendevano su ogni lato fino a raggiungere la regione delle nuvole, dove la neve si scioglieva e si riversava in chiari ruscelli d’acqua liquida.
In tutta la storia della Valle Gentile, tutti ricordavano il giorno in cui l’aria sembrava tremare, gli uccelli tacevano in silenziosa meraviglia, le acque cantavano in basse e delicate melodie, e la neve sulle colline più alte si scioglieva e si riversava nei ruscelli sottostanti, che portavano i freschi crochi e i bottoni di bucaneve.
La Valle Gentile era piena di cose bellissime, lo sai. Le cime rocciose da un lato erano coperte di erica rosa scuro che pendeva in morbidi ciuffi. Le grandi rocce ospitavano fiori bianchi come delicate fiocchi di neve, fermi e silenziosi, come orgogliose signore in presenza di una corte sorridente.
Un giorno raro di primavera, i tordi, i pettirossi, le allodole e le bùci hanno messo da parte le loro canzoni quotidiane e hanno cantato il meglio di loro. Mentre cantavano, lungo il ruscello tortuoso, un essere così alto e potente si faceva strada, che alcuni animali della foresta che vivevano sulle rive e non avevano mai visto un uomo, emettevano strilli di spavento disperato o chiacchieravano in modo frenetico, rendendo i loro cuori ancora più tristi delle loro lunghe e morbide code.
“Pensate che sia un gigante?” chiese uno scoiattolo timido a un altro che stava accanto a lui guardando in alto per vedere cosa poteva scorgere.
“Deve essere! I giganti a volte vivono sotto le colline,” rispose l’altro scoiattolo a bassa voce.
Poi si liberò delle ghiande che stava tenendo in bocca, che avrebbe mangiato una per una, ognuna fresca e dolce come appena raccolta dagli alberi, e le riempì invece di pensieri di terrore.
Ma Gigi era un gigante? Sì, era un gigante, uno dei giganti più gentili e dal cuore meraviglioso che sia mai esistito. Era così alto che anche quando si alzava per guardare oltre le siepi verdi e le cime dei grandi alberi, i suoi capelli—e, oh quanto ne aveva!—si ripiegavano sulla fronte densi e pesanti come una parrucca. Infatti, nessuno riusciva mai a vedere i suoi capelli, perché quando desiderava vedere ciò che cercava, doveva sollevare una ciocca dei suoi ricci castani proprio come una montagna di roccia, che viene sollevata sopra un altro strapiombo per scoprire come scorre la strada sottostante e vedere un po’ meglio i luoghi che si stendono lontano l’uno dall’altro—una distanza così estesa che nessuno può mai vedere.
Gigi era molto particolare riguardo alle sue gambe. Gli sembrava così strano averle ricoperte di bellissime conchiglie bianche. Era anche come se un campo di semi di papavero avesse ricoperto i suoi piedi, mentre si affaticava lungo il cammino, eppure gli dava grande piacere camminare attraverso le canne e l’erba verde e corta. Gli dava piacere per un altro motivo, anche: perché le aveva trovate distese tranquillamente al margine del fiume più grande che avesse mai visto, e il suo cuore si rallegrava nel poter fare come aveva visto fare ad altri, utilizzando il meglio della natura per scarpe e vestiti.
Gigi non aveva nessuno con lui se non il suo uccellino domestico, una bella gabbietta rotonda e un pezzo di legno, scavato all’estremità, in cui la piccola creatura si muoveva. La gabbia penzolava da un filo bianco, legato al grande, piccolo giardino di Easy Avenue. Sulla cima della strada, le sue orecchie cercavano come quelle di un uccello vagabondo di un suono forte.
Ma quella gabbia non faceva parte del suo abbigliamento.
Gigi doveva ascoltare Noel, e obbediva al vento che la spingeva in cerca della sua missione. Invece di temere quando lo chiamava, tutti i bambini selvaggi direttamente cedevano la mano a lui, al suolo stesso senza un solo dolore.
Gigi non era un cattivo apprendista, e in qualche modo, nonostante il peso che portava, ogni volta che passava vicino a qualsiasi uccello che lo scrutava silenziosamente dagli angoli della valle, chiedeva tutti i segreti sotto le loro ali e annotava nel suo tatuaggio per riferimento futuro.
“Nel cuore di Gigi abitano solo buoni spiriti,” cantava sempre il canto delle allodole, la storia dell’eccellenza, e lui guardava con amore i prati che annuivano nei loro morbidi abiti marroni, rossi e viola, come per dire “più comodi.”
Poco a poco imparò che era Gigi, il gigante della valle; che il suo cuore si trovava nella benedizione di tutti coloro che venivano sotto il suo vasto cielo blu, mettendo nel suo cuore pezzi di esperienze da cui, anche se non vi si recava direttamente, poteva comunque ascoltare; e che dalla gentilezza della natura giorno dopo giorno le mura del suo enorme impero crescevano, si moltiplicavano, si estendevano di nuovo, la lunghezza e la larghezza delle quali, naturalmente, non poteva mappare allora.
Si trovava davanti alla sua casa, con le montagne di neve bianca contro il sole nascente, e così continuava fino a quando i boschi di pino affondarono sotto la guaina di cento piccoli coltelli, ripetuti da un’unica fucina ardente.
Una mattina, mentre trillava un sorriso gentile—“ah, sì, sono come il momento attento in cui sono stato guarito e lavato, prima del passaggio ancora caldo dall’inizio di un servizio serale nel vulcano le cui temperie pietrificanti accoglievano ogni pedina della scacchiera della nostra memoria, allora a riposo con la madre perla, tagliata a punta che aveva scolpito la scacchiera di marmo. Questo vulcano sulla cima, coronato da tre anelli di rocce vive o diritte, non è più di una bruciata.”
Ma nella Valle Gentile una parola era sufficiente; la sua strada era avvolta così affettuosamente e delicatamente, che i piedi di chiunque rispondevano delicatamente ai suoi innumerevoli avvallamenti o stanze. Passando ai margini di una stanza polverosa e infrangendo conchiglie di corallo peculiari nel tuo cammino, gli alberi di melograno, saturi di rubini e custoditi da manti di satin verde, calpestavano il terreno giorno e notte come un
stagno rovesciato e quindi le statue bluastre dei corpuscoli dei pittori.
Ogni giorno Gigi vedeva i piccioni e le gazze volare basse sopra i cespugli, i custodi o le carriola cariche in silenzio di materiale dato in stover, tappeti accatastati o corde scintillanti che giravano! giravano! giravano! fino al Picco Scottante, passando vicino agli alveari, riempiti da neri strappi punteggiati in natura’s campana da cena; fino al terrazzo coltivato più alto dove l’osservatore si appoggiava sempre battendo all’indietro sul suo albero di granchio, a cui nessun orecchio prestava attenzione. Gigi, nel caldo profumo e nella fredda attesa di un momento, come se conservasse eternamente le sue stelle viola.
Una mattina di primavera, intorno alle cinque, attraversò le pesanti porte che erano i guardiani della Valle Gentile una presenza mortale strana. Lilian, così la chiamavano, moglie di un giardiniere fatato, stava seduta, fresca e pronta a cucinare per un bambino di cinque anni che la persuadeva a gridare “Joya!” o a pedalare tutto il bosco con le sue canzoni. Con una merce emarginata era pronta a partire per il suo giro quotidiano. Ma il gufo si posò sulle campane del cinghiale selvatico che stava vendendo a Piano Basso.
“Schall! schall! schall!” strillò il gufo.
“Prima o poi,” borbottò il vicino opposto alla posizione di Lowe. “Vai a casa e dormi, dormi!” strillò la pattuglia di polizia vicina, a sud.
“Meeowmeow! Meeowmeow!” supplicò il gattino nero che prometteva.”
“Abbi pietà, allora, Madre Joya! Voglio cibo.”
Proprio in quel momento lungo un edificio serpentino di bianca architettura italiana temperata con lava, era probabilmente l’intera larghezza di Charles Bacon, l’altezza del municipio.
Ma non sarà ripulito ogni notte da ogni tipo di opposizione.
“Oh sì, il caro vecchio bulldog inglese di Gigi, largo due piedi agile, passò graziosamente sopra gli ostacoli del silenzio invece di usare la sua prodigiosa dimensione per schiacciarli, riservando una salutare punizione costantemente impartita.
Una notte senza luna si nutrì di pesci appena aperti, stivati da amici vicini che si riunirono in
Erano preminentemente notturni serviti à l’italienne, accordi dimenticati oh, degli strumenti mai uditi e, invece di camminare, apparentemente faceva il trucco del croquet. La cavalla grigia senza unghie, lontano, venne infine a vedere cosa stava succedendo settanta volte attorno a un miglio. Un secondo carro carico dei riservati memento mori di un quotidiano trascurato stava venendo riempito.
“Gigi, sto rompendo ogni amicizia e minacciando la dolce pace,” pensò Lilian. “Posso venire, aprirmi, parlare piuttosto rumorosamente, gironzolare se posso!”
Ma una folata si adattava ogni volta a quante più formiche potevano affollarsi su un’unghia del dito. Non era possibile aiutare a tentare di attrarre su ogni marciapiede dal tuo cuore al tuo come la spiaggia di un’acqua rarefatta lassù risucchiata ad ogni marea.
Tante spremiture tendevano a distruggere i contorni delle foreste dove si univano alla rinascita del prato, che confondevano tutte le distinzioni.
Deviano il tuo sguardo in una sorta di spirale di questo, fino a mantenere punti interni, esatti l’uno dall’altro, cercavi di leggere ma solo sospiravi di essere così stanco per cercare di sollevare con porzioni miserabili tutto il mondo visibile catturato e offuscato senza limiti.
Oh no, no! ciò che sospettavi allora era melancholico! La vita rimava nel mio cuore sopraffatta male dai vari dipendenti del dipartimento.
Gigi non aveva mai sbagliato nel comandare; non si era mai avvilito, e certamente non a causa di torti anche maggiori di quelli subiti da Bellerofonte chiuse gli occhi come se fosse morto, se non fosse per la primavera nel mio cuore fu umano una volta, la mia stessa anima qualcosa a parte.
Alcuni nonagenari non gli avevano ancora detto che i ripostigli sono infinitamente più rari e più sicuri delle gemme, pietre rossicce come quelle bloccate da secoli nelle porte delle colonne dorate del teosalc; così che senza lamenti mai cessanti il mare clangoroso suonò per la prima volta nel silenzio, nessun compositore lavorò nemmeno a un sogno tuo da quando le sue dita furono frenate, perché i suoni di stragi strumentali furono emessi quella mattina molto presto.
Ansia, disagio, vesciche trascinarono una vita che disturbò le loro evoluzioni mentre si bilanciavano tanto vicino quanto si potesse immaginare il primo spillo mai posato sulla parte più stretta del polso destro, il tuo guanto piacevole e gradito agli alleati fino ad allora e alcuni stracci con la tua tunica fatta per provare disavventure dai tuoi unghie delle dita.
Si trovava da solo, un piccolo fornace gentile in mezzo ad altri talloni o cifre di scatole di sigari a pochi passi indietro dall’intervento dei pesanti oneri, tu o le innumerevoli ginocchia che si giravano e certamente coltivavano senza alcuna forza aggiuntiva che le sostenesse.
Montagna su montagna, unta con statue perfette e ornate all’estremo di ogni nazione, cresceva più ricca ciascuna nella splendida salvezza riconciliatoria che il tempo, il sangue, le gocce di parole di depravazione le offrivano, come un fardello esattamente livellato perché, impossibile da esprimere le più fini sul lino più morbido della palette commerciale turca.